La storia

La storia del Monastero di Sant'Antonio da Padova

L’unico scritto sulle origini del monastero di Pennabilli è quello pubblicato nel 1744 da Giambattista Contarini(1), opera assai rara, che Amedeo Potito ha pubblicato in anastatica nel 1988, proprio in una monografia sul Monastero(2). Comunque già nel 1744 l’autore lamentava che il trasporto dei documenti alla curia vescovile o agli altri archivi avesse disperso quasi tutti i documenti sulla fondazione del monastero e che le notizie che provenivano dalla tradizione popolare fossero poco conformi alla verità. E che comunque poteva contare ancora su “pochi rimasugli di antiche carte esistenti nel Monistero”.

Il Contarini racconta quindi che la moglie e alcune figlie di un certo Giovanni Lucis, che abitavano nella Rocca di Billi, dove ora sorge il monastero, avessero cominciato in casa a vivere una vita devota e avessero invitato altre donne a condividere la loro esperienza, vestendo con l’andar del tempo, l’abito delle Suore Umiliate(3).
Il Lucis, probabilmente consapevole che la nuova fondazione non aveva esperienza sufficiente e quindi neppure garantiva molta solidità, pose l’occhio sul monastero di S. Matteo di Rimini nel quale si osservava la regola dell’Ordine degli Umiliati. Quindi propose al Generale degli Umiliati che il Monastero di Pennabilli fosse accorpato a quello di Rimini, in modo che tra i due monasteri ci fosse un aiuto reciproco spirituale e materiale. Il Generale, ch’era in quel tempo Girolamo Lambriano, il 29 giugno 1518, scrisse al Lucis di approvare la sua idea e gli promise che nel mese di settembre avrebbe fatto visita di persona al nuovo monastero.
Quindi nel frattempo il Lucis dispose ogni cosa in modo che il Generale trovasse tutto in ordine e non avesse ripensamenti. Si ritirò ad abitare in sole tre stanze della rocca, lasciando tutto il resto del fabbricato alle suore(4) e il 1 settembre 1518 fece al monastero la donazione di tutti i suoi averi. Tenne per se, oltre alle tre stanze, anche alcuni pezzi di terra e degli animali, che però dispose che sarebbero andati al monastero dopo la sua morte. In cambio comunque le suore gli garantivano, sua vita natural durante, vitto, vestito e cavallo.
Subito dopo le suore del monastero si rivolsero al Vicario del Duca di Urbino(5) perché volesse “convalidare e confermare” la donazione e si compiacesse di accordare al nuovo monastero qualche aiuto. Chiesero, per costruire la chiesa e il dormitorio del monastero, di poter utilizzare le pietre della rocca di Billi che il Duca aveva fatto smantellare. Chiesero inoltre che venisse loro assegnata ogni anno una soma di sale e di essere esentate dal pagamento del focatico. E aggiungono: “Item addomandano ditte Suore che li sia concesso per bolletta di V. S. poter qualche volta mandare un paro di Capretti, di Agnelli, qualche para di piccioni e Polli, overo Cascio, ed altre simili cose occorrenti alle Suore Umiliate(3) di S. Matteo de Arimino loro Sorelle in Cristo, acciò loro ancora le possano mandare del pesce, olio, vino, ed altre cose che sono la giù, perché si possano ajutare et sovenire l’uno Monastero all’altro, essendo insieme uniti”. Tale supplica al Duca ebbe esito positivo e le suore ebbero un rescritto del Vicario il 9 Settembre 1518(6). 
Intanto il monastero prendeva forma e cresceva anche il numero delle religiose. Morto il Lucis, chiesero l’abito anche la sua vedova, Donna Giovanna, che prese il nome di suor Marta, e persino la sua serva Lodovica di Torricella, che prese il nome di suor Caterina.
La superiora del monastero di Pennabilli aveva il titolo di Vicaria, in quanto spettava al monastero di Rimini avere la superiora con il titolo di Abbadessa. Certo però che con l’andar tempo, e soprattutto con lo sviluppo del monastero della Penna, questo prese sempre più le distanze da quello di Rimini, fino ad acquisire una sua autonomia e ad eleggere una propria abbadessa.
Tuttavia cinquant’anni più tardi, nel 1571, venne soppresso l’Ordine degli Umiliati e, benché nella soppressione non venissero compresi i monasteri femminili, tuttavia venne soppresso anche quello di S. Matteo di Rimini(7) . Il monastero della Penna, rimasto senza Ordine di riferimento e senza direzione, conobbe un lento declino che si documenta soprattutto con il calo numerico delle suore, ridotte nel 1624 a sei soltanto. Si dice che quelle monache, consapevoli di rischiare l’estinzione, fecero vari tentativi per essere aggregate a qualche altro Istituto, ma senza esito. Provvidenzialmente nel 1624 giunse a Pennabilli come predicatore quaresimale il domenicano P. Marco di S. Lorenzo ed anche a lui esposero il loro problema. Questi naturalmente propose loro l’aggregazione all’Ordine Domenicano che fu accettata di buon grado. Ottenuta l’approvazione del vescovo diocesano Consalvo Durante, il 20 marzo 1624 di fronte a un notaio l’Abbadessa, suor Laura Fuffi, e le altre 5 suore superstiti stipularono un atto pubblico in cui si impegnavano ad abbracciare il nuovo Istituto(8) . Mancava a questo punto l’ultima formalità: il consenso della Sacra Congregazione, che giunse alla curia vescovile il 7 ottobre 1625(9) . Il Contarini ci fa sapere che la vita di quelle suore riprese vigore e che quattordici ragazze in soli due anni si aggregarono alla loro comunità. Aggiunge poi di essere contento di aver messo in luce l’origine di un monastero del suo Ordine, ma che naturalmente doveva lasciare ad altri il racconto della storia futura. La storia del Contarini fu continuata da un anonimo nei primi anni del ‘900. L’opera, manoscritta, si conserva anch’essa nell’Archivio del convento ed anche questa Amedeo Potito ha pubblicato in anastatica nella sua monografia del 1988(10) . Il nostro anonimo inizia il suo racconto con le vicende legate alla soppressione napoleonica del 1810: il 25 aprile un decreto firmato da Napoleone dichiarava soppresse tutte le “corporazioni religiose”(11) . A partire da questa data, le sorti del monastero della Penna si intrecciano con quello di Pietrarubbia.

 

LA SOPPRESSIONE E LA FUSIONE DEI DUE MONASTERI

I - La fusione

II 25 aprile 1810 un decreto firmato da Napoleone obbligò tutti religiosi e le religiose a lasciare i loro Conventi. Rimasero vuoti anche i monasteri femminili di S. Antonio di Pennabilli e di S. Giovanni Battista di Pietrarubbia. Le monache trovarono ospitalità nelle loro famiglie o presso famiglie amiche, in attesa che i tempi volgessero al meglio. Dopo la caduta di Napoleone si potè mettere mano alla ricostituzione della vita religiosa. Il vescovo diocesano, Mons. Antonio Begni, appena giunto alla sua Sede, si adoperò per riaprire i monasteri della sua diocesi. Solo uno non venne riaperto: quello di Pietrarubbia, da sempre estremamente povero e difficile da raggiungere. Le Religiose di questo monastero furono unite alle poche superstiti di S. Antonio in Pennabilli. E siccome si trattava di mettere insieme nello stesso monastero due comunità con due osservanze diverse, fu deciso di seguire la Regola delle agostiniane di Pietrarubbia, in quanto costituivano la maggioranza nel monastero. Decisione approvata dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari con Rescritto del 24 giugno 1816.

La nuova comunità era così composta: quattro Coriste Domenicane della Penna, Teresa Margherita Cavalieri, Anna Teresa Venturini, Reginalda Venturini, Lucrezia Ciacci; dodici Coriste Agostiniane di Pietrarubbia:  Nicola Ferri, Maddalena Balducci, Serafina Capelli, Cecilia Salvi, Anna Maria Santinelli, Giovanna Agnolini, Luigia Brandi, Crocefissa Fortuna, Colomba Carici, Annunciata Carici, Mariangela Laghi, Fortunata Santini. Ed inoltre sei Converse Domenicane della Penna, e cioè: Vincenza Mazzarini, Lucia Mariani, Gioseffa Agostini, Fortunata Vedini, Catterina Vedini, Maddalena Petrucci; e quattro Converse Agostiniane di Pietrarubbia, e cioè: Rosa Menghini, Teresa Muccioli, Catterina Fabbri, Chiara Lattanzi.

Il 28 agosto, festa di S. Agostino, il Vescovo ricevette la Professione solenne della nuova comunità e, terminato il rito, assistette alla elezione della Badessa e della Vicaria. Con scrutinio segreto fu eletta supcriora la Madre Teresa Margherita Cavalieri, la quale era Badessa nel medesimo Monastero della Penna al momento della soppressione. Venne invece eletta Vicaria la Madre Nicola Ferri, già Abbadessa in Pietrarubbia.

 

II - La soppressione del governo italiano

Dopo che nel 1860 l’esercito piemontese ebbe invaso il territorio Pontificio, il Commissario per le Marche Lorenzo Valerio, con decreto del 3 gennaio 1861, ordinava la soppressione degli Ordini Religiosi e l’incameramento dei loro beni. Ma fu soprattutto il regio decreto del 7 luglio 1866, n. 3036, che mise in moto una legislazione particolarmente raffinata e perversa, pensata appositamente per estinguere senza remissione gli Istituti religiosi. Il decreto scioglieva tutte le corporazioni religiose con assoluto divieto di ricostituirsi, i loro beni venivano incamerati e passati in amministrazione ad una "Cassa Ecclesiastica", la quale avrebbe provveduto alla liquidazione di una pensione annua ai membri delle corporazioni soppresse. In conseguenza di questo, tutti i religiosi vennero cacciati dai loro conventi, che furono adibiti a usi civili o concessi ai Comuni affinchè fossero adibiti per l’istruzione pubblica o per l’assistenza. Per le monache, alle quali naturalmente venne fatto assoluto divieto di accettare novizie, ci fu una legislazione particolare. Il decreto del 1866 fa esplicito riferimento alle monache negli articoli 6 e 20(12) . L'art. 6 prevede che le monache potranno continuare a vivere nel fabbricato monastico requisito dallo Stato, in tutto o in parte di esso, fino a che le professe con voti solenni saranno in numero superiore a sei unità. Scese a sei, potranno essere concentrate in altra casa, praticamente sfrattate. Questa norma assoggetterà le comunità, per circa 40 anni, ad un asfissiante controllo da parte delle autorità, per verifìcare il numero delle monache e non permettere raggiri alla norma. L’art. 20 prevede che i Comuni potranno chiedere allo Stato il fabbricato monastico quando le monache, secondo l’art. 6, avranno evacuato la casa. Questo articolo permetterà a molti Comuni di fare un’aspra lotta alle monache per convincerle o costringerle a lasciare gli stabili che occupavano. Il monastero era stato indemaniato nel 1861 e spogliato di tutti i suoi beni immobili. Si era proceduto all’inventariazione di tutto quel che conteneva da parte di un delegato del governo, perché nulla venisse alienato. Alla Badessa, suor Maria Antonia Begni, e alla sua comunità fu concesso di continuare ad abitare in monastero fino alla morte dell’ultima di esse, dietro domanda delle monache stesse, perché fosse chiaro che il monastero era proprietà del Demanio. Le monache furono costrette a vivere con una misera pensione che non raggiungeva le 30 lire mensili. La vita del monastero andò comunque avanti fino al 16 gennaio 1891, quando l’Intendenza di Finanza di Pesaro chiese al Municipio di Pennabilli l’elenco delle Religiose esistenti in Convento per concentrarle con le Clarisse di S. Agata. Delle monache pensionate era rimasta solo suor Teresa Reali, la quale morì il 10 agosto dell’anno dopo. Le altre avevano professato in barba alle disposizioni di legge e vivevano indisturbate nel loro monastero, utilizzando l’escamotage di figurare come inservienti. In verità si sollevarono lunghe contestazioni a riguardo di suor Raffaella Mazza e suor Chiara Nuti, non pensionate, che affermavano di aver professato prima della soppressione. Certo si è che negli uffici governativi non si aveva affatto un’idea precisa di cosa succedeva nei monasteri. Fortunatamente per le monache tramontò il progetto di concentramento a Sant’Agata, anche se giuridicamente era stato approvato. Infatti l’Intendenza di Finanza qualche mese dopo chiese al Municipio se volesse accettato il fabbricato del monastero per utilizzarlo ad usi di pubblica utilità, anche con la possibilità di lasciarne una parte per abitazione delle vecchie monache. Il Consiglio Comunale il 9 maggio dava voto favorevole su ambedue le proposte. Tuttavia le trattative del Comune con il Fondo Culto per mezzo dell’Intendenza di Finanza di Pesaro e del Ricevitore del Registro di S. Leo andavano per le lunghe, perché il Comune voleva che nel contratto fosse scritto a chiare lettere che l’immobile si sarebbe potuto alienare senza condizioni. L’Intendenza di Finanza invece si rifaceva alla disposizione che nei capitolati di vendita dovesse apparire chiara la clausola che gli acquirenti non potessero, sotto pena di decadenza, destinare gli immobili degli ex-monasteri per abitazione di qualsiasi Congregazione disciolta. Ma fu trovato ugualmente il modo di aggirare l’ostacolo quando nel 1894 uno zio di suor M. Giuseppa Giannotti, il signor Giovanni Giannotti, si offrì di comperare il fabbricato. Ma a questo punto il 9 maggio 1896 l’Intendenza di Finanza, che aveva capito il raggiro, troncò ogni trattativa col Municipio e rimise in ballo la proposta di concentrare le monache agostiniane nel monastero delle clarisse di S. Agata. Il Municipio, per scongiurare questo pericolo, ritornò sui suoi passi e fece in modo che le trattative riprendessero. Tuttavia per le nostre monache si presentò qualche giorno dopo un altro pericolo. Infatti si presentò a Pennabilli un certa Suor Maria Giuseppina dell’Immacolata, al secolo Maria Baronessa Fabiano, fondatrice delle Suore di Maria Immacolata, coll’intenzione di ottenere lo stesso Monastero per le sue Suore. Ma la gente era troppo affezionata alle monache per permettere una simile eventualità e la suora, capita l’aria che tirava, si ritirò dall’affare. Riprendevano intanto le trattative fra il Comune e il Fondo Culto. Quest’ultimo proponeva la cessione del fabbricato con l’obbligo di mantenere aperta al culto la chiesa, escludendo però dalla cessione i mobili e gli oggetti d’arte, di cui si cedeva il solo uso. Veniva concesso inoltre che una parte del fabbricato fosse abitato dalle monache pensionate che si credevano ancora superstiti e che, pur concentrate giuridicamente con quelle di S. Agata, tuttavia sarebbero potute rimanere alla Penna per la loro veneranda età. Nonostante le aperture, il Fondo Culto rimaneva però fermo sulla condizione che il Comune potesse vendere il monastero a chicchesia, ma non ad una Corporazione religiosa soppressa. Il Consiglio Comunale, riunitosi il 29 dicembre 1897, deliberava di accettare l’offerta del fabbricato e rilanciava la proposta di poterlo alienare, con la condizione di usare il danaro ricavato a scopo di pubblica utilità, adducendo la considerazione che il cattivo stato dell’edificio avrebbe portato al Comune un grave onere per la manutenzione. La Giunta Provinciale Amministrativa in data 29 aprile 1898 accettò la proposta del Comune e, anche se le lungaggini burocratiche rallentarono la pratica, tuttavia finalmente l'11 gennaio 1900 fu stipulato il contratto di vendita nel parlatorio del Monastero con rogito del Notaio Ambrogìo Manduchi. Compratrici figurarono cinque monache coi loro nomi secolari, non credendosi più necessario l’intervento del Giannotti. Le monache sborsarono 1.500 lire per l’acquisto del monastero, più altre 800 di rimborso di tasse pagate dal Municipio e una cifra imprecisata per tutte le spese del rogito. Perché potesse effettuarsi la compera, concorse con generosa elemosina di 1.200 lire il P. Salvatore Mazza fratello della Badessa, mentre il resto fu prestato dal vescovo. Si chiudeva un ciclo di quasi un secolo di sofferenze, in cui nel monastero erano rimaste solo due professe coriste e tre converse, e se ne apriva un altro più pacifico e sereno. Come nel 1816, dopo la bufera napoleonica, il 28 agosto 1900 presero l’abito sei novizie. Esse erano suor Rita Urbini di Mercato Saraceno, suor Caterina Duranti di Rofelle, le due sorelle suor Luisa e suor Eletta Pacei di Maciano, suor Maddalena Moretti di Pennabilli e suor Agostina Palmieri di Soanne. Nell’Archivio del Monastero di S. Antonio si conserva una copia di documento in cui il vescovo chiede alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari alcune dispense per le sei novizie perché “due hanno dote insufficiente e quattro ne sono affatto sprovviste; di più due o tre di esse hanno oltrepassato l’età di 25 anni ed una è vedova: tutte poi sono nell’impossibilità di sostenere le spese necessarie pei relativi rescritti”(13).

Fonte: Il Monastero di Pennabilli, Padre Mario Mattei OSA


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(1) GB. CONTARINI, Brieve ragguaglio della prima origine del monistero delle suore domenicane della Penna, Urbino 1744.

(2) A. POTITO, Le vicende di un Monastero, con documenti sul Montefeltro in appendice, Pazzini Editore 1988.

(3) Il Contarini dice che queste e altre notizie provengono da G. CONTICELLI, Descrizione della Penna, ms. del 1658, il quale le avrebbe attinte “dai Rogiti di Berardo di Filippo de’ Berardi da Monte Taffi, le quali si conservavano per l’addietro nella Cancelleria Vescovile dell’Abbazia della Valle”.

(4) Nel documento di donazione si dice che l’abbadessa era Donna Emilia Benzi.

(5) Il Duca di Urbino era Lorenzo de’ Medici e il suo Vicario risiedeva a S. Leo.

(6) Il Contarini dice che queste rescritto si trovava nell’archivio del monastero.

(7) Gli Umiliati fiorirono in Lombardia e si diffusero nell’Italia del nord tra il XII e il XIII secolo. Faceva parte di quei movimenti che propugnavano il ritorno a una vita più austera. Nel XVI secolo, al tempo della Riforma, erano sospettati di calvinismo ed entrarono in contrasto sempre più acceso con l’arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo, fino a che un membro dell’ordine, Girolamo Donato detto il Farina, tentò addirittura di assassinarlo con un colpo di archibugio. L’attentato provocò la soppressione dell’Ordine, che venne sancita il 7 febbraio 1571 da una bolla di papa Pio V. Le comunità umiliate femminili invece non furono soppresse.

(8) Erano presenti due canonici feretrani, Roberto Marconi e Niccolò Gianetto, confessore delle suore, insieme con Giovanni Santo Stefanio loro Sindaco. Il notaio era Gino Palmarino. Il Contarini scrive che l’atto era conservato nell’Archivio della Città nel Libro 27 dei Rogiti del medesimo notaio.

(9) Il Contarini scrive che la lettera della Sacra Congregazione si conservava fra le carte del monastero.

(10) Continuazione delle memorie sul monastero di S. Antantonio di Padova della Città di Pennabilli, in A. POTITO, Le vicende di un Monastero, con documenti sul Montefeltro in appendice, Pazzini Editore 1988.

(11) Nel 2009 l’Ordine agostiniano ha organizzato un convegno dal titolo “Le soppressioni del secolo XIX e l’Ordine agostiniano”. Tre sono stati gli interventi che hanno riguardato il territorio italiano:

a) MATTEI M., Cronologia delle leggi soppressive dei conventi agostiniani e della loro applicazione in Italia nel corso del XIX secolo.

b) BELLINI P., La soppressione dei monasteri femminili agostiniani italiani nel secolo XIX.

c) DALLE FOGLIE A, Le soppressioni napoleoniche e la sorte delle biblioteche agostiniane in Italia: I casi di Milano e Napoli. (Atti del Congresso dell’Istituto Storico Agostiniano - Roma 19-23 ottobre 2009), Roma 2010.

(12) Art. 6: “Alle monache, che ne faranno espressa ed individuale domanda fra tre mesi dalla pubblicazione di questa Legge, è fatta facoltà di continuare a vivere nella casa od in una parte della medesima che verrà loro assegnata dal Governo. Non di meno, quando siano ridotte al numero di sei, potranno venire concentrate in altra casa. Potrà anche il Governo per esigenze dì ordine o di servizio pubblico operare in ogni tempo con Decreto reale, previo parere del Consiglio di Stato, il detto concentramento (...)”. Art. 20: “I fabbricati dei conventi soppressi da questa e dalle precedenti Leggi, quando sieno sgombri dai religiosi, saranno conceduti ai Comuni ed alle Provincie, purché ne sia fatta dimanda entro il termine di un anno dalla pubblicazione di questa Legge, e sia giustificato il bisogno e l’uso di scuole, di asili infantili, di ricoveri di mendicità, di ospedali, o di altre opere di beneficenza e di pubblica utilità nel rapporto dei Comuni e delle Provincie. Per le case destinate all’abitazione delle religiose secondo il disposto dell’articolo 6, il termine per fare la domanda decorrerà dal giorno in cui le case saranno rimaste sgombre. Tale concessione non avrà luogo per quei fabbricati che al giorno della pubblicazione di questa Legge si trovassero occupati dallo Stato per pubblico servizio e che potessero essere adattati a locali di custodia di carcerati. Da questa concessione saranno sempre escluse quelle parti dei fabbricati che si trovano destinate ad uso produttivo di rendita (...)”. Cfr. GIOLI A., Leggi e Decreti emanati dal Regno d’Italia a proposito della soppressione di Istituti e Corporazioni Religiose (1860-1867), in "Nuove funzionalità per la città ottocentesca: il riuso degli edifìci ecclesiastici dopo l'Unità", Atti del convegno Bologna, 16 marzo 2001, BUP, Bologna 2004, pp.189-201.

(13) Nel documento il Vescovo dice di aver ricomprato il Monastero: “Beatissimo Padre. Il Vescovo del Montefeltro prostrato al bacio del SS.mo Piede, espone che dopo tante pratiche ha potuto finalmente ricomprare il Monastero delle Agostiniane in Pennabilli, ove già si trovano, oltre due professe coriste e tre converse, quattro postulanti coriste e due postulanti converse...”. In realtà nella memoria scritta si dice che il vescovo prestò una certa somma. Forse con questa frase il Vescovo voleva sottolineare semplicemente che le suore erano di diritto vescovile e quindi poteva considerare il Monastero di proprietà della Diocesi.