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Approfondimenti su fede e vita

Condividete tutto

Articolo di sr. Abir Hanna per la rivista Cor Unum edita dalla Federazione Monasteri Agostiniani d'Italia "Madonna del Buon Consiglio" - Anno 50 n° 1/2016



Premessa
L’invito a riflettere sui passaggi della nella nostra Regola che si soffermano sul tema della condivisione, cioè sulla povertà intesa in senso agostiniano, mi ha messo di fronte alla necessità di fare un discernimento e conseguentemente una scelta, ma ancor prima a pormi una domanda: come leggere queste parole oggi? Quale la loro attualità, quale la novità?     
Dal momento che una Regola è data per la vita, risulta essere potenzialmente sempre nuova. Questa novità è in stretto collegamento col suo essere ispirata alla Parola di Dio. Una Parola incarnata, che continuamente s’incarna nel qui ed ora della vita dei suoi interlocutori, perché la novità della Parola è intrinseca all’ascolto rinnovato della stessa.
Accennavo anche al discernimento e alla scelta, che riguardano più il metodo e il taglio con cui sviluppare la riflessione. Ripercorrendo i vari commentari sulla Regola che riguardano i passaggi in questione, mi è sembrato che - naturalmente e sapientemente - la preoccupazione dei padri studiosi si fosse concentrata sul criterio di confrontare tali precetti, espressi nella Regola in modo sintetico, con gli scritti di Agostino che ne illuminano il senso spirituale e ne costituiscono il fondamento teologico.
Da qui la scelta di optare per una lettura di taglio antropologico, tentando di trovare una base di universalità per il concetto di condivisione, in quanto condizione di possibilità per il compiersi della persona umana. Il che si concretizza non semplicemente nel donare le proprie cose, ma nel donar-si.
Tuttavia, data la stretta connessione della Regola - e nella fatti specie di questi passaggi oggetto della nostra riflessione - con la Scrittura (Cfr. Atti 2, 42-47; 4, 32-36), vorrei tentare di gettare una luce sul fondamento biblico di questi precetti che Agostino colloca all’inizio della Regola e di cui difende appassionatamente l’osservanza.

 

1. Fondamento antropologico della condivisione

1.1 Uno sguardo sull’attualità
La contemporaneità è caratterizzata da eccessi che si contrappongono e si toccano, perché mentre è ancora impregnata di tutti gli effetti e le conseguenze dell’individualismo e del consumismo che troviamo ormai annidati capillarmente e trasversalmente nell’eredità umana, essa fa i conti con l’esito fallimentare delle ideologie totalitaristiche del comunismo e del capitalismo.
Oggi torna al centro il discorso della condivisione ma nel senso di pratiche di Sharing IN e Sharing OUT, (cioè condivisione in piccoli o grandi gruppi) di beni, informazioni, servizi…sembra che tutto sia diventato condivisibile, perfino le informazioni intime con degli sconosciuti attraverso i social network.  Il rischio è che il termine “condividere” finisca per essere impiegato in modi talmente vari da renderlo un concetto passpartout. Scaricare un file è condividere? Utilizzare uno spazio di lavoro insieme è davvero una forma di condivisione? «Non è che l’enfasi posta sul far funzionare meglio tutto porti a offuscare le dimensioni del fare insieme, ponendo le relazioni in un ruolo subordinato, curvando il “noi” a fini strumentali, smaterializzando le relazioni»?

1.2 L’uomo si compie condividendo-si
Se l’uomo, laico o religioso che sia, torna ineluttabilmente a cercare forme di condivisione, nonostante sia immerso nella logica del consumismo e dell’individualismo e nonostante la si cerchi in modi non necessariamente frutto di una comunicazione oblativa o ancora peggio in forme dispersive o narcisistiche, rimane vero che egli in qualche modo sente pervasiva questa dimensione del suo essere (il condividere con altri) che nasce dalla consapevolezza del suo essere con altri.
Occorre allora porre attenzione a questo desiderio costante della condivisione per poter rispondere alle sfide dell’oggi, che più di altri tempi interpella e interroga la natura profetica della nostra vita che ha come precetto la condivisione. Se non altro, per saper interloquire con chi oggi potrebbe entrare in monastero avendo un retro terreno sul concetto di condivisione frutto delle circostanze piuttosto che del Vangelo.
Stando a questi fatti, s’impone la domanda: le persone, le cose, le doti, le opportunità, il futuro, tutto ciò che abbiamo può venir concepito a prescindere dalle dinamiche di comunicazione oblativa di cui le persone e la realtà si mostrano capaci? Roberto Mancini, nello studio "Esistenza e gratuità", afferma che nella persona umana è costitutiva «una comunicazione oblativa che non è altro che la condivisione intesa come comunione che coinvolge ciò che si è, si sente, si sa e si ha». E ancora: «l’antropologia della condivisione è incentrata sul riconoscimento del ruolo della gratuità nella formazione dell’identità della persona e nelle relazioni interumane. Gratuità e condivisione si richiamano vicendevolmente: l’una come fonte, energia, sentimento e valore propulsivo nel divenire della persona, l’altra come forma compiuta di relazioni interpersonali costruite appunto secondo la gratuità». Questa dinamica della comunicazione oblativa non si dispiega solo nella relazione interpersonale, ma impone alla persona che si mette nell’ottica di condividere o di condividersi, di risalire al rapporto intrapersonale, alla scoperta di sé. Così quando l’interazione comunicativa in cui ci troviamo si realizza come condivisione ed esperienza di gratuità, noi possiamo scoprirci come dono fatto a noi stessi. Di conseguenza, l’esperienza della condivisione che racconta del nostro essere fatti per la comunione, ci insegna a sentire e a pensare la socialità come un essere in relazione, che è essenziale per la nostra identità. Essa ci offre la possibilità concreta di poter arginare il fenomeno del consumismo, che sul piano spirituale, costituisce il tentativo di procurarsi da sé una quantità crescente di beni che rispecchino per noi il nostro valore, dal momento che il desiderio di possesso è l’espressione distorta del desiderio di riconoscimento che ci accompagna dall’inizio della vita alla morte.

La condivisione trova allora la sua originarietà nell’essenza della relazione, cioè nel suo essere-legame, dove le persone sono impegnate nel rapporto con la totalità di se stessi. Questo per sfuggire alla tentazione della retorica del dono, come potrebbe capitare, cioè di correre il rischio di fare una donazione senza una vera condivisione, senza farsi veramente prossimi. La relazionalità è la condizione per rinunciare alla propria autosufficienza, per aprirsi all'altro accettandone le differenze e percependo il bisogno che si ha di lui. Il che significa che prima di essere persone della “domanda” siamo chiamati ad essere persone della “risposta”: è l’altro la domanda e io sono la risposta alla sua domanda. La capacità di rispondere a qualcuno è, in definitiva, legata alla presa di coscienza della propria insufficienza e al concomitante riconoscimento che solo l'accoglienza dell'Altro è in grado di soddisfare l'inquietudine del cuore umano. È legata all'esperienza dell'amore, la quale, quando è autentica, esige la fuoriuscita da se stessi, il disancoramento dalla propria terra per abitare la terra dell'altro in un atto di radicale affidamento. La vera responsabilità si esercita nell'amore, che è tale soltanto quando si incarna in gesti di assoluta gratuità e condivisione; quando è frutto della consapevolezza di essere oggetto di un dono incondizionato, che reclama perciò una dedizione totale.
E’ la stessa vita umana a testimoniare e a dare ragione dell’antropologia della condivisione che ab- biamo tratteggiato. “Essere” per l’uomo significa essere-relazione, incontro dell’Io con l’Altro. La realtà della relazione deriva dall’incontro delle libertà dei soggetti coinvolti. Deriva, più precisamente, dal prevalere della forza comunionale della libertà su ciò che indurrebbe la libertà stessa a chiudersi nel timore dell’altro e nel solipsismo tipico della volontà di potenza. Mentre l’essenza della relazione e dell’essere umano stesso si compie quando la comunicazione interpersonale giunge a farsi libera condivisione di quel che si è, si sente, si sa e si ha. È così che l’esistenza personale può uscire dall’illibertà cui si consegna nella malafede e nell’affidamento alle proprie sicurezze, è così che la libertà impara a confermarsi nella condivisione e nella dedizione ad altri.

 

2. Il fondamento biblico

2.1 La scelta di Agostino
I precetti in questione sono collocati nella Regola quasi all’inizio, dopo il passo che illustra il motivo per cui «abitiamo insieme la stessa casa, cioè nel comune progetto di cercare instancabilmente Dio, avendo tutte un cuore solo e un’anima sola». Appare immediato il riferimento agli Atti degli Apostoli (2, 42-47; 4, 32-35) che illumina la radice scritturistica del principio della condivisione dei beni, adottato dalla prima comunità di Gerusalemme. Gli Atti riportano due sommari che tratteggiano la vita dei primi cristiani. Entrambi sono collocati nel testo sacro dopo un’effusione dello Spirito Santo: il primo dopo la Pentecoste, mentre il secondo dopo la predicazione di Pietro e Giovanni quando lo Spirito Santo è sceso su tutti i presenti, e qui segue una descrizione dello stile di vita della comunità, che si estende ormai a tutti coloro che credono nel Risorto e si professano cristiani.

Suscita interesse il fatto che S. Agostino abbia scelto come modello di povertà (condizione per una vita comune all’insegna della ricerca di Dio), quello della chiesa primitiva, fondato sulla condivisione, piuttosto che quello della sequela di Gesù che chiede di vendere tutto e darlo ai poveri per poi seguirlo. È chiaro che il modello della sequela è sottinteso, ma mi sembra fine la scelta del santo padre, che a mio avviso mette al centro due elementi: il primo sembra sia legato alla sua visione del monastero come "ecclesiola in Ecclesia Dei", dove le monache e i monaci possono ri-presentare la vita della chiesa nascente; il secondo elemento mi piace pensarlo alla luce di ciò che abbiamo esposto sulla condivisione, conoscendo l’importanza che Agostino riservava al valore delle relazioni e dell’amicizia. È degno di nota che già nella cultura ellenistica greco-romana esisteva una vita comune fondata sul valore dell’amicizia, dove tutto era condiviso fra i suoi membri. Basti pensare all’esperienza di Cassiciaco. Proprio questa esperienza ha portato Agostino a comprendere che il fondamento per una condivisione vera, che non sia solo delle cose ma dei cuori e della vita, non può essere posto solo nell’uomo. Tanto meno in un ideale. Ma si fonda nella fede nel Risorto e nel riferimento continuo allo Spirito Santo che crea la comunione dei cuori. Agostino non apprezza uno stile gnostico della povertà, intesa come disprezzo dei beni, punta al contrario a che i suoi fratelli investano sul senso della fraternità, sulla comprensione reciproca, in un atteggiamento di umiltà.
Lo stile che Agostino propone è sotto il segno della Pentecoste, che è l’attuazione storico-salvifica dell’effusione dello Spirito operata da Gesù nel suo mistero pasquale. Lo Spirito è il dono del Risorto. La Koinonia è il dono dello Spirito. Primo effetto dell’opera di Cristo è quindi la creazione di una comunità, principio del popolo nuovo che vive nella reciprocità dell’amore e quindi nella piena condivisione di quel che si è e si ha.

2.2 Uno zoom sui testi degli Atti
a) «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno». (2, 42-45)

b) «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno».
 (4, 32-35)

Dal primo sommario emergono quattro tratti che sono perseguiti dai primi fedeli con assiduità: l’insegnamento degli apostoli, la koinonia, la frazione del pane, la preghiera. Sono quattro elementi che costituiscono il tesoro stesso della comunità. Il verbo utilizzato per indicare la perseveranza nella custodia di questo tesoro, il participio proskarteroùntes, allude ad un patrimonio che non si vuole assolutamente perdere, perché appartiene alle cose più sante che la comunità intende difendere a tutti i costi. Ma cosa sia questo patrimonio, lo si comprende meglio se ci soffermiamo sull’espressione usata da Luca per definire gli appartenenti alla comunità: hoi pisteúontes (i credenti) cioè coloro che condividono la stessa fede.  Questa assidua e ferma osservanza mette in luce la condizione di possibilità di una condivisione dei beni tra i credenti: il fatto di condividere la stessa fede. Nello sfondo c’è un riferimento all’orizzonte veterotestamentario. Secondo la versione greca dei LXX, nella comunità escatologica non vi sarà più nessun indigente (cf. Dt. 15, 4). La koinonia cristiana si presenta allora come il compimento delle promesse antiche, è segno dell’autenticità della comunità, che come tratto caratteristico possiede “un cuore solo e un’anima sola”, frutto dell’unica fede che porta tutti i membri all’intima convinzione che tra fratelli di fede tutto è comune.
Dal secondo sommario emerge che la vita della comunità è nel segno della risurrezione. Al centro di questo testo non c’è la comunione dei beni o la buona disposizione d’animo degli uni verso gli altri da parte dei discepoli: al centro c’è la forza creativa della risurrezione di Cristo, la cui condivisione è il primo elemento essenziale di una vita cristiana, come mostra la predicazione stessa degli apostoli. La comunione dei beni non è altro che la conseguenza della comunione interiore, dono dello Spirito e fondata sulla comune fede nella risurrezione. Ed è motivata da un ideale di fraternità e di uguaglianza, percepite partendo dalla comune partecipazione ai medesimi valori: la paternità di Dio e la morte e risurrezione di Cristo, per tutti. Cristo sulla croce compie la sua esistenza umana donandosi e consegnandosi all’uomo e per l’uomo, in un atto di dedizione totale, che mostra la dedizione di Dio all’umanità. Nella Risurrezione si apre il senso di questa dedizione di Dio. Egli in modo irrevocabile si dona a noi in Gesù sulla croce, e ci riaccoglie nella comunione con lui, dove si concretizza per noi la possibilità della fede, che è il riconoscimento di questa esperienza. Gesù per primo ha condiviso con noi la sua umanità, la figliolanza e la sua risurrezione, e la sua stessa fede. Di fronte a queste fondamentali uguaglianze diventano irrilevanti tutte le altre diversità. I credenti mettono i loro beni in comune non perché si trovano (localmente) insieme, ma perché si sanno uniti in una sola realtà, in un solo corpo. Essi hanno preso coscienza della loro unità nello spirito del Risorto. La messa in comune dei beni diventa allora una conseguenza della loro autocoscienza di formare insieme il corpo unico di Cristo.

 

3. Conclusione
Il significato della koinonia non è semplicemente il senso di una giustizia economico-sociale o di una uguaglianza che mira a placare gli animi da eventuali gelosie o invidie. Essa è frutto di una scelta interiore fondata sulla fede in Gesù, sulla fiducia nello Spirito Santo e nell’unità fraterna.  Forse l’episodio di Anania e Saffira in Atti 5, 3-4 aiuta a comprendere meglio la natura della koinonia. Pietro, rivolgendosi ad Anania, lo rimprovera: come mai Satana ha riempito il tuo cuore da farti mentire allo Spirito Santo? […] perché mai hai pensato nel tuo cuore questa azione? Non hai mentito agli uomini, ma a Dio. Appare chiaro che il peccato di Anania sia proprio il fatto che non abbia posto in Dio la sua fiducia, e si sia lasciato riempire il cuore dall’inganno, abbandonandosi al proprio ragionamento e autosufficienza per poi cadere nella menzogna. La koinonia allora è inevitabilmente vincolata alla rettitudine di cuore, ad una scelta di vita interiore che sappia affidarsi a Dio in un cammino di unificazione. È la via maestra perché la coscienza umana si possa scoprire capace di affidamento e di trasparenza, di legami di vera fraternità, attraverso un atto concreto di donazione di sé, che trova nella fede in Cristo la sua vera genesi.
Per Agostino la povertà non è altro che questa possibilità di formarsi un cor simplex e perciò unum ,capace di rinunciare alle cose temporali e passeggere perché ama quello che è eterno e uno,  desidera rimanere unito a Dio che è Uno e ai fratelli nel vincolo della stessa fede. Questo forse può spiegare la reazione implacabile di Agostino di fronte al testamento che il presbitero Gennaro lasciò in eredità alla chiesa, il quale più che tradire un precetto ha tradito, per Agostino, la via verso la propria unificazione. Per Agostino vivere insieme la povertà è la possibilità di scoprirsi poveri e mendicanti di Dio, per attendere insieme la misericordia di Dio.  Nella lettera al novizio Leto si spingerà oltre la condivisione dei beni, fino a sollecitare la condivisione della propria anima.
La stessa cosa deve pensare ciascuno a proposito della propria anima per odiare in se stesso l'affetto egoistico che ognuno ha verso di sé, ch'è solo passeggero, e per amare piuttosto ciò che forma una sola famiglia spirituale, di cui è stato detto: (I primi Cristiani) formavano un cuore solo e un'anima sola protesi verso Dio. La tua anima così non è più tua, ma di tutti i fratelli e anche le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non formano più se non un'anima sola, l'unica anima di Cristo.